FORMIA – Secondo l’accusa formulata all’epoca dal sostituto Procuratore Giuseppe Miliano al Comune di Formia dal 2008 al 2012 avrebbe operato un’organizzazione in grado di gestire e pilotare l’esito della gestione di appalti, incarichi e concessioni. I protagonisti sarebbero stati, grazie ad una sorta di pacifica commistione, la politica, l’imprenditoria e l’apparato burocratico dello stesso comune.
A distanza di otto anni dall’invio dei clamorosi avvisi di garanzia e sequestri – su tutti quello dell’ex pastificio Paone – la prima sezione penale del Tribunale di Latina – presidente Gianluca Soana, giudici a latere Fabio Velardi e Elisa Artuso – ha dichiarato prescritti quasi tutti i capi d’imputazione per i quali erano ancora sotto processo 13 degli 18 indagati iniziali (assistiti dagli avvocati Daniele Lancia, Francesco Ferraro, Luca Scipione, Vincenzo Macari, Lino Magliuzzi, Mattia Aprea, Antonio Fargiorgio, Andrea Di Croce e Renato Archidicono) con le accuse di concussione, abuso e omissione d’ufficio e peculato nell’esercizio delle loro funzioni.
Il Tribunale di Latina ne ha prosciolti 11 per l’avvenuta prescrizione. Il processo relativo all’inchiesta denominata “Sistema Formia” proseguirà il 4 ottobre per l’ex responsabile del settore e per l’ex assessore all’urbanistica del Comune, Roberto Guratti e Benedetto Assiante. Restano gli unici imputati, assistiti dagli avvocati Vincenzo Macari e Luca Scipione, con l’ipotesi di reato di concussione in relazione ad una consulenza gonfiata per l’acquisto da parte del comune di un vecchio immobile confinante la torre di Castellone nell’omonimo quartiere medioevale della città. Per quest’ultima vicenda erano finiti sotto processo anche l’ex consigliere comunale del Pdl Totò Calvano e l’ex sindaco di Formia il Senatore Michele Forte per il quali, dopo la loro prematura scomparsa, il reato si è estinto.
Il processo riprenderà ad ottobre con la deposizione del perito fonico nominato dal Tribunale per trascrivere le chilometriche intercettazioni telefoniche ed ambientali di oltre 26 ore disposte dalla Procura di Latina. Il motivo? Gli interlocutori parlavano al telefono utilizzando un dialetto talmente stretto che bisognava tradurlo in italiano.