“Ho visto una persona morire”. E’ questa la cruda realtà che può avverarsi ordinariamente in un reparto ospedaliero. E’ questa una delle scene alle quali ti puoi trovare inerme spettatore mentre la paura di un imminente comune destino ti assale, a maggior ragione, in questo periodo pandemico, durante il quale – d’improvviso – può arrivare una “chiamata alle armi” per la nostra salute, che si ritrova a combattere un “nemico” silenzioso – il Covid-19 – che silenzioso e solitario rende il tramonto di chi non lo vince.
“Ho visto una persona morire”, racconta Luca, 44enne formiano, ripercorrendo la sua esperienza di ricovero all’ospedale “Dono Svizzero” di Formia, a pochi giorni dal suo rientro a casa. “Lui”, il virus, è ancora dentro il suo corpo, ma “la partita è vinta” – racconta – mentre la sua mente torna nel reparto di “Medicina d’urgenza” del nosocomio della sua città: “Tu sei li, anche tu con una maschera che ti aiuta a respirare, impotente di fronte al rimbombo sempre più flebile del respiro di una signora sdraiata di fronte a te. Lei è sola, senza qualcuno che le tenesse la mano, che le desse un estremo conforto, con una tenda a segnarne la dignità e demarcare quel labile confine tra chi si è arreso e chi tenta ancora di restare aggrappato alla vita. Quando l’ultimo respiro è esalato e una volta espletate le procedure mediche del caso, la signora viene composta in un sacco anonimo e portata via, nel silenzio di chi resta”.
Luca “non ha sfidato” il virus. L’ha rispettato come si fa con qualsiasi avversario, riconoscendone la potenza. Luca è sempre stato attento a non lasciargli campo, facendo tutto quello in suo potere per evitare che si insinuasse in casa sua; subdolamente, però, durante le festività natalizie, il virus è entrato – senza chiedere alcun permesso: “Tutto è iniziato con una semplice febbre – racconta Luca – che non scendeva. Addestrato da mesi di informazione, ogni due ore controllavo la saturazione del sangue: buona, poi una mattina, la decisione precauzionale: ricoveriamoci”.
“Corro in ospedale, vengo accolto nello spazio riservato dove mi fanno il primo tampone molecolare, insieme ad una Tac che, implacabile, stabilisce la sua diagnosi: piccoli focolai di polmonite bilaterale interstiziale. L’ho presa allo stadio iniziale , penso, sarà una passeggiata. Il ricovero sembra ordinario, fino a quel tragico martedi in cui vengo letteralmente svegliato dai solerti infermieri che vigilano, bardati come astronauti, sui nostri valori d’ossigeno e, prima di capire cosa accade, mi ritrovo con una maschera sulla bocca che mi fornisce il 50% dell’ossigeno”.
Non per un giro in scooter, né per un viaggio sulla Luna, si indossa quel casco. Quando ce l’hai in testa, probabilmente, pensi che l’unico viaggio a cui ti stai preparando potrebbe essere l’ultimo. Luca è sempre stato attento. Luca è un ragazzo responsabile. Luca racconta questa storia perchè mentre lui al indossare il casco, fortunatamente, non è arrivato e si è avviato a tornare piano piano alla quotidianità, alla “persona che ha visto morire” l’hanno tolto per diventare altro, altrove, e non si rassegna all’idea che ci siano “negazionisti” o persone che non si difendano abbastanza sottovalutando quanto stia accadendo in tutto il mondo.
“Quella stessa mattina, la morte visita quel reparto – ripercorre ancora Luca – e tu sai che potresti essere il prossimo, o potrebbe esserlo uno dei tuoi cari, quelle stesse persone che hai cercato di proteggere per un anno e che, grazie a chissà quale energia benevola, hanno in corpo lo stesso virus, ma in forma decisamente più leggera”.
“Da quella mattina seguono tre giorni sul filo del rasoio, ad inseguire valori che non migliorano, stordito dall’incessante rumore dei tuoi stessi pensieri, dalla paura di non farcela”, ma poi per Luca arriva la frase di quel dottore che cambia tutto: “Qualcuno ti protegge. Da questa frase inizia un rapido miglioramento che mi porterà, nel giro di un solo giorno a togliere definitivamente la maschera d’ossigeno e respirare in totale autonomia”.
Questo virus restituisce all’uomo tutta la vulnerabilità di cui a volte non si è sufficientemente consapevoli e allora a Luca – forte della sua esperienza con il Covid-19 – va la libertà e lo spazio di dirlo a modo suo: “Mi rivolgo a tutti quelli che, in giro continuano a blaterale: è poco più di una banale influenza, muoiono solo le persone anziani con patologie pregresse, a me non capita. Cazzate. Qui muoiono persone e muoiono da sole, senza il diritto di un conforto, di una rassicurazione, di un ultimo bacio. Qui muoiono persone, spesso vittime della leggerezza e della disattenzione di chi non le ha preservate, in nome di atteggiamenti scellerati o semplicemente egoistici”.
“Mi rivolgo – conclude Luca – a tutti quelli che dicono no, io il vaccino non lo farò, perché non mi fido. Fatelo, perché la vita è letteralmente un soffio mai scontato. La vita è quello stesso soffio, braccato da questo maledetto virus che cerca, con tutte le sue forze, di togliervi”.
A tutto ciò Luca unisce la parola “grazie” rivolgendola in prima battuta a tutto il personale sanitario dell’ospedale “Dono Svizzero” di Formia: “sono uomini e donne che svolgono il loro lavoro da trincea in silenzio, con una dedizione e un’umanità davvero ammirevole”.
“Ho visto una persona morire” è il più brutto degli incipit per qualsiasi storia dalla pagina epidemiologica (e non solo!), per arrivare a sostituirlo con “C’era una volta”, come suggeriscono le parole di Luca, serve il vero impegno di tutti.