LATINA – Può tornare a lavorare presso il punto vendita di Latina di una nota azienda di abbigliamento una commessa residente nel capuologo pontino alla quale era stato negato il trasferimento richiesto per poter assistere in maniera più completa il figlio disabile di 8 anni. Lo ha deciso il Tribunale civile di Latina che ha intimato la società datrice di lavoro della donna a provvedere al suo ritorno a Latina dallo store di Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria, dove era stata trasferita nel novembre di tre anni fa.
Da quel momento iniziarono i guai per la donna che fu costretta a tornare al suo lavoro di Latina per assistere l’anziana madre ammalata (poi deceduta nell’agosto 2020) ed il figlio portatore di handicap ma con un regime orario temporaneo ridotto: 20 ore settimanali rispetto alle 40 previste dal contratto nazionale di lavoro. Per l’azienda proprietaria della boutique di Latina questo diversificato regime orario avrebbe avuto una valenza sino al dicembre 2020 per far fronte alla diminuzione dell’attività di vendita dovuta all’emergenza Covid. La donna chiese di poter tornare a lavorare a Latina con un regime orario “full time” ma la risposta che ricevette fu negativa. E la motivazione che ricevette riguardò “l’impossibilità di incrementare il monte ore del punto vendita di Latina in via definitiva, in un periodo di crisi generale conseguente alla nota situazione pandemica”.
Il Tribunale civile di Latina, accogliendo un ricorso della Filcams Cgil, ha condannato la società datrice di lavoro della donna al reintegro, immediato e definitivo, della commessa. Semplicemente perché la scelta imprenditoriale della società non è stata sostenuta da valide ragioni economiche ed organizzative. O meglio, la donna ricorrente con il suo forzato trasferimento in Piemonte non ha provocato alcun danno alle esigenze economiche, organizzative e produttive alla sua parte datoriale. “Siamo soddisfatti del risultato ottenuto per la lavoratrice e per il suo bambino – sottolinea in un comunicato la Filcams Cgil – e ci auguriamo che chiunque si trovi in una situazione simile, ci contatti per risolvere qualsiasi ingiustizia esercitata dalle aziende e ci auguriamo che i datori di lavoro imparino, attraverso questa sentenza, che le persone non sono solo numeri di loro proprietà, ma che ognuno ha una storia personale”.