CASSINO – Non ha deluso le aspettative – e c’era da attenderselo – la nuova udienza del processo per l’omicidio di Serena Mollicone che si sta celebrando davanti la Corte D’assise del Tribunale di Cassino. La stessa 18enne di Arce non era presente il 1 giugno 2001 nella caserma dei Carabinieri di Arce dove – secondo la Procura – Serena sarebbe stata uccisa 20 anni fa. Almeno questa è stata – tra una valanga di “non ricordo” che hanno fatto indispettire i sostituti procuratori Maria Beatrice Siravo e Carmen Fusco – la versione di Rosa Mirarchi, la donna che dal 1995 al 2005 ogni lunedì, mercoledì e venerdì si era occupata delle pulizie della caserma di Arce. La signora non ha saputo collocare Serena venerdì 1 giugno 2001 (giorno in cui scomparve) nella struttura militare così come ha detto più volte di non ricordare se quel giorno specifico avesse o meno incontrato lungo le scale della caserma il comandante Franco Mottola mentre andava via. Forse a Frosinone per partecipare alle prove per l’imminente festa dell’Arma. Mirarchi è apparsa pure incerta se avesse udito un tonfo provenire dal secondo piano dello stabile dove abitava la famiglia Mottola.
Nel racconto, molto atteso, della teste c’è stata una sovrapposizione di piano tra l’allogio, posto al piano dove ci sarebbe stato il delitto, e quello superiore dove, per l’appunto, vivevano Franco, Annamaria e Marco Mottola, tre dei cinque imputati insieme a Francesco Suprano e Vincenzo Quatrale. Sevondo i pm Siravo e Fusco la signora Mirarchi avrebbe pulito, su richiesta di Annamaria, la scena del crimine. “Anna mi chiese di pulire l’alloggio sfitto – ha esordito la signora Rosa – perchè c’era del cemento incastrato e utilizzai un prodotto disincrostante. L’acido l’ho versato solo ed esclusivamente nella vasca da bagno dove c’erano da tempo tracce di ruggine”.
Rosa Mirarchi, sarda d’origine, viveva sì ad Arce, conoscena il maestro Guglielmo Mollicone ma non la figlia Serena. Tant’è che confidò all’appuntato Ernesto Venticinque, con il quale – ha rivelato – aveva un rapporto confidenziale, di aver visto nella sala d’aspetto e transitare una ‘bella ragazza” che non era Serena. Il mistero del tonfo poi. Rosa Mirarchi anche qui non saputo collocarlo nel tempo. Ha riferito di aver citofonato a casa Mottola ma, dopo tre tentativi, non ricevette alcuna risposta. Alcuni giorni dopo l’addetta delle pulizie chiese ad Annamaria Mottola cosa fosse successo e le rispose che il tonfo era stato provocato dalla caduta di una bacinella sul terrazzo.
Le due donne erano molto amiche che hanno interrotto ogni tipo di rapporto nel momento in cui i Mottola sono andati via da Arce. Rosa aiutava saltuariamente Annamaria per stirare la biancheria. La signora Mottola le disse che una porta era rotta dopo un litigio tra Franco ed il figlio Marco. Ma Rosa aggiunse: “Ho preso l’asse da stiro ma non guardai se la porta di cui mi parlava Anna fosse rotta o meno”.
Il Colonnello Giampiero Lago, ora è il comandante dei Ris di Parma, all’epoca dei fatti guidava la sezione biologica del reparto investigativo scientifico di Roma. Esaminò alcuni reperti che, appartenenti a Serena, furono rinvenuti nel luogo in cui fu scoperto il cadavere, nel boschetto di Fonte Cupa. L’alto ufficiale ha specificato come ufficialmente fosse seguita la pista sessuale dietro l’omicidio ma – ha specificato – non furono accertati elementi (tracce di liquido seminale e saliva) che potessero giustificarlo . Il Colonnello Lago ha escluso l’iniziale decomposizione del cadavere di Serena abbia danneggiato i reperti poi esaminati dagli inquirenti.
Gli assassini – a suo dire – hanno utilizzato poi dispositivi di protezione per uccidere ed immobilizzare gli arti inferiori e superiori di Serena che è stata uccisa in un luogo diverso rispetto a quello in cui è stata trovata priva di vita. Una possibile prova? Gli scarponcini della ragazza erano pressochè puliti. Se Lago firmò una consulenza genetica sui reperti della caserma isolando 10 tracce di Dna maschile e due appartenenti ad altrettante donne, il Maggiore dei Ris Cesare Raponi ha effettuato ben 12 consulenze che consentirono alla Procura di chiededere, dal 2016 in poi, la riapertura del caso. Sostanzialmente sugli indumenti di Serena e sul nastro adesivo con cui fu immobilizzata la studentessa non ci sono state tracce genetiche dei cinque imputati e tantomeno del bridagiere suicida Santino Tuzzi. Ne ha isolato solo due, erano della vittima e di un uomo rimasto sconosciuto.
Raponi provò a dare una paternità ad una traccia biologica sulla porta sfondata: apparteneva ad un suo superiore, il Colonnello Luigi Saravo che con l’omicidio non c’entra nulla. L’aveva incautamente lasciata durante un precedente ed indiretto accertamento della stessa porta. Incalzato dai Pm Siravo e Fusco ma anche dei legali difensori della famiglia Mottola, gli avvocati Mauro Marzella, Piergiorgio Di Giuseppe, Francesco Germani e Enrico Meta (la loro soddisfazione è stata esternata nell’intervista video allegata dal loro portavoce, il criminologo Carmelo Lavorino), il Maggiore Raponi ha aggiunto che non è detto che chi tira un pugno o subisce l’aggressione lasci il proprio dna sulla porta del mistero. Raponi non ha rinvenuto tracce genetiche neanche sotto le unghie di Serena dopo l’estumulazione del suo cadavere e sul frammento della vernice della caldaia caduto sul nastro adesivo con cui fu immobilizzata il cadavere della studentessa.
L’udienza di venerdì si è conclusa con l’audizione del Maresciallo Salvatore Pletto, del reparto operativo del comando provinciale dei Carabinieri di Frosinone, uno dei principali collaboratori dell’ex comandante Pietro Caprio. Si torna in aula venerdì 10 dicembre con l’interrogatorio ed il contro esame del Capitano Baratta, che dispose l’esame dattiloscopico sulla pistola d’ordinanza con cui Santino Tuzi si tolse la vita e sul luogotente Colella che contribuì alla riapertura delle indagini coordinate dal sostituro procuratore Maria Beatrice Siravo.
Intervento video del criminologo della famiglia Mottola Carmelo Lavorino: