FORMIA – Un paese in processione. Cresce l’attesa per quello che avverrà domenica 26 giugno all’alba nella frazione collinare di Maranola a Formia. Dopo due anni di stop a causa della pandemia, sarà riproposta la caratteristica “Scalata di San Michele” grazie alla quale centinaia e centinaia di devoti maranolesi trasporteranno a spalla la storica e pesante statua raffigurante l’Arcangelo Michele dalla chiesa della Santissima Annunziata – dove rimane dall’ultima domenica di settembre all’ultima del giugno successivo – al suo antico eremo ricavato in una spelonca naturale di Monte Altino, a più di 1100 metri di quota. Salvatore Ciccone è uno dei più apprezzati storici e archeologici del comprensorio. Grazie ai suoi studi è stata promossa una vasta campagna di scavi che ha permesso sul promontorio di Gianola di recuperare, da parte della Soprintendenza, quelle che sarebbero state inizialmente la monumentale e panoramicissima villa di Mamurra e poi una chiesa cristiana di epoca altomedioevale
L’architetto Ciccone ora ha completato uno studio storico sulla processione in programma domenica 26 giugno e, in particolare, sulla scoperta dell’autore della statua che ritornerà a Maranola il prossimo 25 settembre. Una lunga serie di miracoli e la protezione avuta contro le scorrerie napoleoniche fece ottenere ai maranolesi nell’anno 1800 di eleggere San Michele protettore del borgo aurunco. Grazie ad una devozione genuina e sincera le popolazioni rurali dell’intero Golfo erano promotrici di pellegrinaggi gravosi a piedi nudi con destinazione l’eremo di Monte Altino e pronunziando voti a gran voce. Monsignor Vincenzo Ruggiero, arciprete di Maranola, negli scampoli conclusivi dell’Ottocento diede un nuovo impulso al culto dell’Angelo, avventurandosi nell’impresa di rifondare in quella stesssa rupe una chiesa che venne inaugurata nel 1895. Per l’occasione scrisse “L’Arcangelo S. Michele e l’antichissimo suo Santuario Sul Monte Altino in Maranola”, un rarissimo volume pubblicato a Roma e considerato molto fondamentale per la conoscenza del monumento.
La fondazione della chiesa e del cenobio di San Michele risale, invece, all’830 circa, come si legge in un diploma del “Codex Diplomaticus Cajetanus”, ad opera di Giovanni l vescovo della cattedra allora esistente in una Formia in decadenza e la nuova, più protetta, di Gaeta. La dislocazione in un sito così impervio del Santuario di San Michele è – questa tesi è stata confermata dall’architetto Ciccone – da porre in relazione ad un preesistente culto pagano dal quale si voleva purificare quel monte per mezzo dell’Angelo vincitore sul demonio. Si tratta di circostanza comune a molte altre località, come sul monte di Terracina, in cui il “maligno” poteva manifestarsi, specie in presenza di antri e burroni. Perciò il monte e la grotta ricca di acqua perenne dev’essere stato dapprima dedicato a Giove – lo suggerisce il toponimo di “Altinum”, dell’alto, dell’eccelso. Il nome di “Gegne”, dato all’altopiano dominato dalla vetta, è attendibile derivazione di Juno, la dea Giunone, consorte di Giove alla quale erano sacre le giumente e appropriata a questo alpeggio.
I monaci e l’abate Rodoino avrebbero avuto in gestione inizialmente il cenobio “in cilio montis qui vocatur de altino”, appartenenenti ad una specifica congregazione di San Michele, forse proveniente dall’omonimo e principale santuario dei Longobardi del Mezzogiorno situato su Monte Gargano. Un possibile riferimento storico è lo stesso monte Altino dove sarebbe stati posto il confine del Ducato di Gaeta con quello del gastaldato longobardo di Aquino e della Terra dell’abbazia di Montecassino. Una lapide posta nel santuario in occasione della riconsacrazione avvenuta il 5 agosto 1895 ricorda i principali eventi del luogo culminati nella realizzazione della nuova cappella. Secondo l’architetto Ciccone avrebbe sostituito l’ultimo edificio settecentesco avente una cupola posta all’esterno e ripetutamente danneggiata dal maltempo. Era tutta inserita nella caverna con un’imboccatura chiusa da un’armoniosa facciata neogotica, soluzione, questa, che venne suggerita da monsignor Niola, l’Arcivescovo di Gaeta, ed ispirata al santuario del Gargano e tradotta dall’ingegnere Silvio Forte di Trivio.
La devozione per San Michele di monte Altino si è poi concretizzata con la venerazione del suo simulacro di pietra, un peperino dei Colli Albani. Monsignor Ruggiero ha sempre creduto nell’antica tradizione popolare riguardante la statua. Originariamente sarebbe stata collocata nella “Grotta delle Sette Cannelle” lungo la scogliera del promontorio di Giànola. A causa delle imprecazioni dei marinai e dei pescatori in transito nel mare sottostante si sarebbe rifugiata sulla cima del retrostante monte Sant’Angelo a Spigno Saturnia. Anche dal quel luogo vedeva i marinai ed allora decise di trasferirsi nella cavità di monte Altino. Gli spignesi la riportarono sulla cima del loro monte nascondendola in una siepe spinosa, ma la statua ritorno su Monte Altino dove rimase solo perché, di fronte al suo peso, gli spignesi decisero di desistere.
Nella leggenda – ha aggiunto l’architetto Ciccone – è interessante osservare come l’aumentato peso della statua evidenzi l’esistenza di una statua di pietra. Quanto alla grotta di Giànola, originaria collocazione del simulacro, essa si presenta tra enormi strati obliqui di roccia conglomerata. In prossimità della grotta esisteva una torre di avvistamento distrutta nell’ultimo conflitto bellicop, detta di “Sant’Angelo” e più correntemente “della Fica”, denominazione questa che venne ‘aggiustata’ con “Fico” riferito all’albero. La scultura era pervenuta assai rovinata e con le mani rifatte di tenera pietra arenaria locale. Nel 1888 Monsignor Ruggiero decise di farla restaurare interpellando a Roma lo scultore Lodzja Brozsky che diede l’incarico al suo primo collaboratore, il romano Giuseppe Blasetti. La pietra occorrente fu offerta appositamente dai Basiliani di Grottaferrata, presso la quale vi è il peperino in tutto simile alla scultura. Si ricostruirono, oltre le mani, la figura del demonio appena percepibile ai piedi dell’Arcangelo. L’arciprete di Maranola raccolse il parere scritto dal restauratore che la statua sarebbe stata di manifattura romana tarda, cosa che andava a collegarsi bene con la tradizione che la voleva antichissima, influenzando in ciò il giudizio dello stesso Blasetti.
La statua è alta 94 centimetri, compresa la base quadrata di 42 centimetri di lato, alta 10 e rappresenta un guerriero, le cui membra, un po’ tozze, sono più rispondenti a quelle di un fanciullo. Veste una tunica decorata nel mezzo da un serafino; sostiene col braccio sinistro un mantello e con la mano la catena con la quale soggioga il maligno atterrato; il braccio destro è alzato a sostenere la spada ed è coordinato al movimento della testa sfuggente dall’osservatore. Le ali, poi, sono assenti, ma vi sono sulla schiena i fori per applicarle in metallo. Sul lato frontale della base vi è nel mezzo uno stemma, allora integro descritto da Monsignor Ruggiero: è ovale, forzatamente dimensionato con taglio dei culmini, avente una fascia centrale, tre monticelli nella metà inferiore e una rosa a cinque petali in quella superiore. A sinistra sono sovrapposte le residue lettere S e TOR, probabili desinenze di Angelus/victor; a destra quelle consecutive P ed F.
La generale impostazione compositiva esclude che la scultura sia d’età antica di uso cristiano, del IV-V secolo dopo Cristo, principalmente perché l’Arcangelo veniva allora e fino al Medioevo raffigurato in semplice tunica. La statua va invece assegnata al Rinascimento, come quella simile marmorea del Gargano di Andrea Sansovino (1507), oppure all’età barocca. L’identificazione dell’artefice viene facilitata dalle due lettere P ed F presenti sulla base, certamente iniziali di persona. Tra gli scultori operanti a Roma in quel periodo la sigla corrisponde a Pompeo Ferrucci, originario di Firenze e vissuto all’incirca tra il 1566 ed il 1637. Lo stemma inciso alla base è di complessa interpretazione e sicuramente aggiunto in un secondo momento da mano meno esperta insieme all’epiteto dell’Angelo, potendo rilevare un committente o offerente.
Secondo la traccia di provenienza della scultura, lo stesso stemma compare tra gli emblemi della famiglia Orsini, nobili romani di antica origine della quale i capostipiti di nome Orso occupavano importanti cariche nel XII secolo e il cui elemento araldico principale era l’orso rampante. Un’importante connessione si ha con Giacoma Orsini, considerata la madre del conte Onorato I Caetani conte di Fondi, artefice sullo scorcio del Trecento di importanti opere a Maranola e fondatore del vicino Castellonorato. Una delle principali famiglie di Maranola porta il cognome D’Urso che è facile far risalire a de Urso ossia dell’Orso. Comunque è possibile che da quella discendenza vi possa derivare la commissione della scultura.
“La vetustà attribuita alla statua di San Michele è quindi comprensibile nell’idealizzazione popolare insieme alla favola del suo peregrinare chiaramente espressive di una lunga tradizione di culto in questo territorio – ha concluso nel suo studio l’architetto Ciccone – Entrambe sottolineano la dimensione temporale di queste comunità dedite alla economia della montagna, che nella loro apparente immutabilità hanno tramutato gli eventi in saga fascinosa, come i luoghi tersi ed eterei risaltati dallo sfondo turchino del mare sconfinato”.