LATINA – Cinquantaquattro anni per avere giustizia. A causa delle trasfusioni infette del 1968 all’ospedale Santa Maria Goretti di Latina il risarcimento, 300mila euro, è stato riconosciuto un anziano di 85enne residente nel capuologo pontino. Lo ha deciso martedì la Corte di Appello di Roma con la sentenza numero 6501 che non ha fatto altro che confermare la sentenza di Tribunale di Roma del 2014 respingendo un ricorso presentato dal Ministero della Sanità attraverso l’avvocatura dello Stato.
L’85enne di Latina era stato contagiato dal 1968 all’età di 31 anni ed aveva poi scoperto di essere positivo al virus dell’epatite C solo nel 1996 quando la malattia lo aveva, nel frattempo, danneggiato silenziosamente. Dopo 54 anni di convivenza con un virus, che non ha mai smesso di “divorare” lentamente il fegato, e dopo due lunghi processi di primo e secondo grado che hanno confermato l’impianto processuale dell’avvocato Renato Mattarelli (che lo ha assistito) l’85enne ha ora una certezza: le trasfusioni del Goretti del ’68 che gli hanno rovinato la vita erano infette e potevano essere evitate!
Questa situazione spiega le ragioni cliniche a causa delle quali l’uomo, ancor prima di scoprire nel 1996 di essere stato contagiato, si sentisse sempre stanco, tanto da “essere considerato uno sfaticato”. La sentenza della Corte d’Appello conferma invece come l’uomo fosse affetto dal 1968 da una malattia che, all’epoca sconosciuta (il virus HCV, responsabile dell’epatite C, non era ancora stato isolato e solo nel 1988 venne approntato il primo test), gli provocava una spossatezza al punto da essere deriso da colleghi e amici. Proprio su questo lo Stato italiano ha appellato la sentenza del Tribunale di Roma che aveva accolto la tesi dell’avvocato Mattarelli.
Secondo il legale a cui l’uomo si è rivolto – a prescindere dalla scoperta del virus responsabile dell’epatite C (che in effetti nel 1968 era sconosciuto) e del fatto che solo 20 anni dopo (1988) venne approntato il primo test per rilevare l’HCV nel sangue dei donatori – la responsabilità per i contagi da trasfusioni di sangue delle amministrazioni sanitarie non decorre dagli anni in cui la scienza aveva scoperto il virus (ed inventato il testper rilevarlo) ma da quando, con i mezzi diagnostici a disposizione all’epoca, era possibile indirettamente evitare il contagio e quindi già negli anni ’60.
Il Tribunale prima e la Corte di appello di Roma hanno quindi accertato e confermato che le trasfusioni di sangue somministrate nel 1968 al “Goretti” di Latina all’allora 31enne potevano essere controllate ed evitate (se non direttamente per il tipo di virus e il test sconosciuto all’epoca), almeno indirettamente attraverso la distruzione del sangue dei donatori che presentavano valori elevati delle transaminasi quali indici di una sofferenza epatica (a sua volta indice di un’infiammazione virale).
Sicuramente fra i fattori della vittoria giudiziaria dell’85enne c’è la “scoperta” da parte dell’avvocato Mattarelli di una sentenza risalente al 19 giugno 1936 della sezione civile della Corte di Cassazione del Regno d’Italia che dichiarava la pericolosità infettiva delle emotrasfusioni: “…è di comune conoscenza che la trasfusione del sangue, rimedio prezioso per casi clinici talvolta disperati, è anche il mezzo diretto e sicuro per comunicare infezioni da soggetto a soggetto...”
“A parte questa vittoria, che arriva a 54 anni dall’illecito trasfusionale del 1968, resta il fatto – dice l’avvocato Mattarelli – che l’oramai 85enne pontino ha dovuto convivere con un virus subdolo che non ha risparmiato solo in Italia la morte di decine di miglia di persone”.
Dalla scoperta del 1996 del contagio, l’uomo vive in simbiosi con cure e farmaci che, come l’interferone, gli hanno provocato eventi avversi e nuove patologie reattive compresa una sindrome ansioso-depressiva da consapevolezza, non solo, di essere stato infettato ma, anche, di essere un soggetto a sua volta infettante.