CASSINO – Fu un germe letale non diagnosticato in tempo, la Klebsiella, e non un tumore alle ovaie a provocare la morte esattamente dieci anni, il 23 maggio 2013, di una donna del cassinate che, vedova da poco tempo e madre di due figli, non aveva compiuto ancora 65 anni. Per questo motivo i due congiunti della donna hanno ottenuto un risarcimento danni di circa 350 mila euro. Si è espressa in questi termini, dopo una via crucis processuale iniziata nel 2016, il giudice Raffaella Vacca della 13° sezione civile del Tribunale di Roma che, condannando l’azienda sanitaria del Policlinico Umberto Primo di Roma a risarcire i danni subiti dai figli della donna, ha legittimato la costituzione in giudizio degli avvocati Giovanni Di Murro e Michela Perrozzi.
I due legali, specializzati da anni ormai in materia di responsabilità medica, avevano deciso di avviare questo difficilissimo contenzioso con il

duplice intento di accertare la verità e di chiedere giustizia. Dopo quasi sette anni di processo hanno dimostrato che la donna 64enne del cassinate non doveva morire per un’infezione nosocomiale. La donna, a causa del male che le era stato diagnosticato, venne sottoposta a diversi cicli di chemioterapia sino a quando decise il 14 marzo 2013 di essere ricoverata presso il dipartimento di chirurgia dell’Umberto I° dove contrasse una serie di infezioni ospedaliere.
I tamponi eseguiti sulla ferita chirurgica rilevarono una serie di germi nosocomiali quali la candida e Klebesiella, germi con cui la donna non doveva venire a contatto date le sue già precarie condizioni cliniche. Gli avvocati Di Murro e Perrozzi con i loro periti di parte dopo una dura battaglia legale nella quale si sono succeduti anche diversi Ctu nominati dal Tribunale, hanno dimostrato che la morte della donna era imputabile alla carenza di nome igieniche all’interno dell’ospedale. Si poteva fare qualcosa contro la causa del decesso della donna che “ ha una genesi infettiva e nosocomiale”?
Secondo il Tribunale civile di Roma sì, dal momento che la paziente nel frattempo fu sottoposta a due interventi – uno di medicazione chirurgica e l’altro di ciecostomia per la revisione della colostomia – che precedettero la sua improvvisa morte avvenuta – come detto – il 23 maggio 2013. In quella fase storica il Policlinico Umberto I° ospitava tutti quei pazienti che sarebbero dovuti essere ricoverati ed operati in quegli ospedali delle province laziali chiusi dalla Regione Lazio per far fronte al deficit sanitario.
Emblematico quello che scrive il Giudice Raffaella Vacca nella sentenza di condanna arrivata dopo una serie innumerevole di perizie per capire realmente perché è deceduta la 64enne del cassinate: “Dopo il primo intervento, i sanitari avrebbero dovuto trattenere in isolamento la paziente, le cui condizioni cliniche erano già precarie. Bisognava preservarla dal rischio di contagio di infezioni piuttosto che ritrasferirla nel reparto di provenienza , in una stanza condivisa con altri pazienti”.
“Durante il ricovero della donna – non a caso – a causa del propagarsi di alcuni infezioni, era stata effettuata una disinfestazione nella stanza degli uomini che si trovava a circa tre metri dalla stanza della paziente”.
Ecco un altro durissimo atto d’accusa : “I sanitari, nonostante fossero consapevoli del rischio del contagio di infezioni e della conseguenze che lo stesso avrebbe avuto per i pazienti già affetto da gravi patologie, non avrebbero adottato nessuna precauzione”.
Il tribunale di Roma rimarca come sia trascorso troppo tempo (20 giorni) dall’esame all’arrivo dei risultati della Klebsiella “nonostante la deiscienza della ferita si fosse manifestata una settimana dopo il primo intervento. La paziente venne posta in isolamento troppo tardi in quanto dopo tre giorni morì a causa di questo germe letale non diagnosticato in tempo”.
I figli della donna nominarono anche il medico legale Antonella Conticelli (la stessa professionista che prese parte all’autopsia di Serena Mollicone subito dopo il suo delitto avvenuto il 1 giugno 2001) che arrivò a quest’altra ed analoga conclusione: “Le complicanze sopravvenute all’intervento stesso sono state costituite piuttosto da una condizione igienico sanitaria inaccettabile che ha notevolmente contribuito al progressivo deterioramento cui è incorsa la paziente e che, in definitiva, ha ampiamente contribuito a condurla a morte in uno stato di setticemia”.

Determinante anche l’esito della perizia affidata dal giudice ai suoi due Ctu che hanno aderito alla posizione degli avvocati affermando che la donna “ha riportato infezioni nosocomiali da multipli agenti microbici con conseguente sespi finale e decesso, connesse a probabili lacune organizzative e assistenziali. Il succedersi a sovrapporsi della diverse specie batteriche ha reso complessa ed inefficace la gestione terapeutica. Non risulta effettuato all’ingresso un corretto screening adeguato alle condizioni della paziente, le indagini microbiologiche e la trasmissione dei risultati sono state effettuate con ritardo e, conseguentemente, l’impostazione delle terapie infettive non è stata tempestiva e ciò indipendente dall’astratta adeguatezza del trattamento antibiotico”.
Determinante per la sentenza finale del giudice civile – fanno rivelare gli avvocati Di Murro e Perrozzi – è stato il contributo testimoniali di molti pazienti ricoverati all’epoca insieme alla donna del cassinate che hanno fatto rilevare come le misure di sicurezza e anti contagio fosse vicino allo zero.
Di questo decesso e di altri presunti casi di malasanità dell’epoca si occuparono gli allora deputati del Movimento Cinque stelle Andrea Colletti, Alessandro Di Battista, Marico Enrico Baroni, Federica Daga e Stefano Vignaroli che il 13 novembre 2015 sottoscrissero un’interrogazione parlamentare alla Camera all’allora Ministro della salute.
“I nostri assistiti volevano la verità sulla morte della loro madre e sono riusciti ad accertarla grazie alla pronuncia del Tribunale civile di Roma – hanno commentato concludendo gli avvocati Di Murro e Perrozzi – la soddisfazione più grande per la famiglia è stata aver avuto giustizia affinché fatti simili non abbiano più a ripetersi”.