Cronaca

Golfo di Gaeta / Impianti di allevamenti di itticoltura, in manette l’imprenditore Pietro Lococo

GOLFO DI GAETA – I dati sono carenti per difetto: con 200 dipendenti, i numerosi impianti di allevamento e di trasformazione dislocati ovunque (compreso nel mare di Malta) e 4500 tonnellate di pesce prodotto era alla testa di un’azienda, di un piccolo impero che gli ha permesso di scalare col passare degli anni le gerarchie del settore in Italia e di occupare un spazio di rilievo per la produzione di pesce di allevamento. Il comparto di Gaeta teme nei prossimi giorni un effetto domino e, dunque, possibili ripercussioni di natura giudiziaria dopo che un suo imprenditore di primissimo piano, Pietro Lococo, fondatore 63enne del gruppo “Del Pesce”, è finito agli arresti domiciliari mentre altre cinque persone hanno invece subito l’obbligo di dimora.

Sono residenti in diverse province italiane ma con interessi in società di acquacoltura pure in Sicilia e nel trapanese.  È stata la Guardia di Finanza del comando provinciale di Trapani e del locale nucleo di polizia finanziaria a portare avanti le indagini e ad eseguire il provvedimento cautelare emesso dal Gip del Tribunale di Tivoli, su richiesta della Procura europea, nei confronti di Lococo.

Negli ambienti imprenditoriali di Gaeta l’imprenditore romano è assai noto perché con le sue “Piscicoltura del Golfo di Gaeta Soc. Coop. Agricola a r.l.” prelevò anni fa quello che, al termine del clamoroso fallimento di quello che era considerato il fiore all’occhiello, il prototipo della pescicoltura nel sud pontino, la “Med Fish” dell’imprenditore Damiano Magliozzi e di quello che tentò di diventare sindaco al comune di Napoli Gianni Lettieri.

Lococo ha subito un sequestro preventivo di somme e beni per un valore complessivo di oltre 4 milioni e mezzo. Cinque, poi, – come detto – sono stati complessivamente gli imprenditori coinvolti, tutti operanti nel settore della produzione di avannotti quindi nell’acquacoltura (aventi le loro attività a Roma, Guidonia, Piombino e La Spezia). Sono considerati a capo una fitta serie di società che copriva l’intera filiera che parte dall’allevamento dell’avannotto fino alla produzione di sushi per ristoranti e supermercati. Sono accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, autoriciclaggio e trasferimento fraudolento di valori.

Le indagini hanno fatto luce su irregolarità nell’ottenimento di contributi a fondo perduto, di origine europea, nazionale e regionale, per un ammontare complessivo di circa 4,5 milioni di euro, concessi dalle Regioni Sicilia, Lazio e Toscana alle diverse società coinvolte, a valere sul programma operativo F.E.A.M.P. 2014/2020, per progetti relativi alla realizzazione e al riattamento di siti produttivi. Il meccanismo fraudolento funzionava così: le società beneficiarie dei contributi affidavano i lavori ad una sola ditta, solo apparentemente terza ma, di fatto, avente stessa compagine societaria delle committenti, e proprio per questo in violazione della normativa comunitaria e nazionale di settore. L’escamotage permetteva quindi una maggiorazione fittizia delle voci di costo. In questa maniera la rendicontazione finale veniva gonfiata attraverso la sovrafatturazione delle spese oggetto dei contributi pubblici.

Le indagini hanno altresì dimostrato come i profitti delle truffe finissero nei conti della società soltanto apparentemente terza che aveva a capo un amministratore fittizio. Il vasto raggiro avrebbe permesso a Lococo, “dominus dell’associazione”, di utilizzare l’illecito profitto per pagare il proprio personale dipendente, per acquistare materiale e per onorare le fatture delle diverse società del gruppo.

L’inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore di Marsala, Maria Milia, verte sulla legittimità concessione dei contributi comunitari destinati alla pesca. Si tratta di una storia di aiuti a fondo perduto, tratti dal programma operativo del Feam, il fondo europeo per gli affari marittimi e per la pesca. Secondo l’accusa sarebbe stato creato un meccanismo di maggiorazione fittizia dei costi, una rendicontazione gonfiata in cui più società, beneficiarie di contributi, si sarebbero avvalse della stessa ditta.

Il Gip del Tribunale di Tivoli ha disposto un sequestro preventivo di somme e di beni per il valore della presunta truffa. E gli altri imprenditori ai quali vengono contestati i presunti illeciti fanno tutti capo alla fitta rete di società di Lococo, intestatario della stessa concessione demaniale della piscicoltura di Porto Venere, attualmente attiva in regime di deroga, in attesa di ricollocazione all’esterno della locale diga foranea. Com’è noto, le norme europee non permettono più di tenere vasche così vicine alla costa.

È ormai da anni che si parla dello spostamento al largo, a Liguria così come nel mare di Gaeta e Formia. Fondata nel 1987, “l’itticoltura delle Grazie”, una delle aziende di Lococo, è rimasta lì, nonostante la commissione europea abbia stabilito una ventina di anni fa le nuove linee di acquacoltura sostenibile, che prevedono gabbie in mare aperto, per ridurre l’inquinamento, migliorare l’ossigenazione e dare un maggiore spazio vitale ai pesci. La Regione Liguria, una quindicina di anni fa, aveva stabilito una distanza minima di mille metri dalla costa e un fondale di almeno 30 metri. Come rilevato da anni dall’associazione ambientalista “Posidonia”, “l’impianto delle Grazie” si trova attaccato alla costa con un fondale che non raggiunge 10 metri. Lo stesso sindaco di Porto Venere Matteo Cozzani, nel 2021, aveva chiesto alla locale autorità portuale di non firmare ulteriori deroghe all’impianto e di spingere per il trasferimento. La scelta dell’authority ligure fu diversa.

Lo spostamento non c’è stato e, di fronte ad una nuova scadenza, si è scatenata una tempesta giudiziaria che potrebbe investire le vasche di Gaeta per all’allevamento delle orate e delle spigole che il neo assessore regionale all’ambiente Elena Palazzo ha annunciato di voler trasferire, dopo un ‘attesa, di 13 anni all’esterno di Punta Stendardo.

Share