“Il sogno di Moneva” vinto dal caporalato, dalla pelle al cuore del nuovo spettacolo della compagnia Imprevisti e probabilità

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La pelle delle mani si inspessisce. Sui palmi e sulla dita qualche callo o bolla d’acqua fanno male anche a stringere quel morso di pane che talvolta puoi mangiare. Altre no. La pelle della fronte non è poeticamente imperlata, ma madida di sudore, e non sono solo le rughe di un’espressione affaticata o la nuca ad essere bagnate. L’acqua scorre su ogni centimetro del corpo tranne che nella gola poiché talvolta non puoi neanche fermarti a bere. L’acqua è calda, almeno quanto te. Te che sotto le serre, nei campi, da ore sei chino sotto un tetto di sole cocente d’estate. Una temperatura alla quale è evaporata ogni speranza di una vita migliore, dignitosa, che talvolta puoi sognare. Soprattutto quando tra te e questa drammatica realtà distano chilometri percorsi nel desiderio di lavorare.

Cosa è sempre tragicamente stato e cosa significa oggi lavorare? Lavorare nella terra, da cui tutto nasce e a cui tutto torna?

Significa lasciare andare la radio degli altri sui leggeri motivetti estivi di vacanze che sono proprie di altre vite; significa “elemosinare” una paga che dovrebbe esserti riconosciuta di diritto, come di diritto dovrebbero esserti riconosciute tante altre garanzie circa le ore e le condizioni di impiego. Significa che può succedere che la tua vita finisca tra la promessa di un contratto regolare e la determinazione di racimolare del denaro da mandare alla tua famiglia: ai figli che non vedi da anni o che desideri avere, alla famiglia che vuoi costruire. Significa che puoi finire ad essere esattamente come una di quelle bolle che hai sulle mani: ma non d’acqua, bensì d’aria.

E tutto questo da qualche anno ha ormai un nome: caporalato. Quella condizione che non risponde alla definizione di lavoro, ma di sfruttamento di chi viene impiegato in agricoltura, soprattutto – ma non solo – tra gli stranieri, e che ha insozzato uno dei lavori più nobili che esistano: lavorare la terra. Un lavoro che ha tirato su intere sane generazioni di un’Italia contadina che ha cresciuto i suoi figli insegnando loro il valore del lavoro condiviso tra la gente e al ritmo della natura.

E se è vero che sono le denunce per vie legali che dovranno mettere fine a questa piaga, anche le denunce culturali, fanno bene al percorso di rivalorizzazione umana delle vittime di questo fenomeno e di un lavoro che merita di vedere sotterrare solo ortaggi e frutta, non storie di vite che crepano prima sotto la disumanità e poi sotto il sole.

Il sogno di Moneva, muore così in un’Italia afflitta, tra le altre, dalla piaga del Caporalato. Dalla penna di Valentina Fantasia nella drammaturgia portata in scena al Teatro Iqbal Masih di Formia dalla compagnia teatrale “Imprevisti e probabilità”, con la regia di Raffaele Furno e la partecipazione di Gabriele Atripaldi e Giuseppe Pensiero, il nome che fluttua tra le battute delle intense attrici Soledad Agresti, Isabella Sandrini e la stessa Valentina Fantasia, è un nome femminile bulgaro, ma la triste verità è che potrebbe essere un qualsiasi altro nome di diverse altre origini, anche italiane.

Moneva come una delle tante donne che “fa la stagione” tra i campi per un “tozzo di pane” per la sua famiglia, finisce col trasformarsi essa stessa in un “pungo di farina” per i suoi cari. Tra violenze, disperazioni e schiene rotte, lo spettacolo si sofferma sullo spaccato di quattro storie che potrebbero somigliare potenzialmente a migliaia di altre vittime di caporalato, messe in croce dal dio denaro.

La pelle d’estate si colora. Sulle spalle e sul viso qualche scottatura può far male anche ad indossare un indumento di lino. La pelle è accaldata e l’arsura sale dalle cavità più profonde del nostro corpo, ma talvolta non possiamo bere perché a circondarci è l’acqua salata del mare. Ma poi c’è un bar da cercare e un lettino da conquistare. Talvolta no. Quella pelle inscurita e quell’arsura non passano, rimangono su un corpo esanime che solo allora potrà vedersi fluttuare tra le onde. Anzi, forse, come nel caso di Moneva, neanche allora…

I sentimenti e le storie passano tutte per la pelle. Quelle più felici e quelle più drammatiche. Anche, e forse soprattutto, quelle di caporalato: persone dalla “pelle” dura, che vorrebbero poter riportare a casa la “pelle”, ma che la rischiano la “pelle”, che provano a vender cara la “pelle”, ma poi diventano protagonisti, loro malgrado, di storie che fanno accapponare la “pelle” in cui ci rimettono la “pelle”.

Il nuovo spettacolo della compagnia “Imprevisti e probabilità” va sentito a “pelle”, così come generalmente andrebbero sentite queste storie che purtroppo presidiano le cronache. Finisce che si potrebbe venire fuori con la “pelle” d’oca…

Foto della prima dello spettacolo di Matteo Vocino.