FORMIA – Un’inchiesta ricca di novità e di prove che fa luce sul mistero della morte di Pier Paolo Pasolini: il regista e scrittore friulano non è stato assassinato nel corso di un incontro omossessuale con Pino Pelosi all’Idroscalo di Ostia il 2 novembre 1975.
In questa corposa inchiesta fatti, riscontri, elementi a raffronto, testimonianze smarrite, foto inedite raccontano un’altra storia e ricostruiscono in modo del tutto nuovo l’assassinio del poeta. Troppe cose che non tornano. L’inchiesta dell’autrice prende le mosse da quella sciagurata notte del 2 novembre 1975 e da quanto accaduto subito dopo, con l’ausilio di straordinarie prove fotografiche mai emerse sinora, di evidenza schiacciante, di documenti inediti, interviste e testimonianze esclusive, con la voglia di confutare moventi ufficiali e spazzare vie le piste finora accreditate – dall’«omicidio a sfondo sessuale» al «misterioso» Appunto 21 di “Petrolio”.
Come nasce il progetto di questa inchiesta e quanto tempo ha impiegato per realizzarla?
Mi occupo dell’ “omicidio Pasolini” da ormai 5 anni. Nel 2012 è stato pubblicato già un mio saggio inchiesta su “I Quaderni de L’Ora” (rivista di cultura approfondimenti e attualità emanazione del quotidiano siciliano “L’Ora”), saggio condotto insieme alla collega Martina Di Matteo. Ho scritto articoli e ho cominciato a raccogliere elementi senza pensare a un libro: volevo vederci chiaro. Niente mi convinceva nemmeno le totalità delle inchieste uscite sino a quel momento, nemmeno la modalità con la quale stavo lavorando. Ho fatto tabula rasa. Non c’è una tesi da cui si parte per poi fare un libro, almeno io non lavoro così. C’è la volontà di andare a fondo e se ci sono più elementi consistenti che valga la pena trasformare in un libro vi si arriva mano a mano. E’ un work in progress, anche nel momento di piena scrittura: ti sorprendi a scoprire a volte che non è così “come te la stai raccontando.”
Domanda interessante. Le indagini riapertesi nel 2010 si sono concentrate più che altro sulla presenza di ignoti, con i quali Pelosi avrebbe potuto concorrere a quel massacro e, sebbene gli inquirenti abbiano scandagliato molti elementi nuovi, come riporto nel mio libro, non hanno ritenuto di analizzare, ribaltandoli se necessario, tutti gli elementi: come a esempio le condizioni del corpo di Pasolini o il passaggio di più auto sul corpo stesso. Per questo, credo, hanno soltanto preso in considerazione la perizia ufficiale dei periti nominati al tempo della magistratura, la quale, però, come dimostro nella mia inchiesta, era tutt’altro che obiettiva. Eppure le indagini sono durate 5 lunghi anni. Per quanto riguarda le inchieste passate, e lo stesso primo processo conclusosi definitivamente nel 1979, ci sono state manipolazioni, depistaggi oscuramenti e anche una precisa non volontà di andare oltre l’omicidio sessuale come dimostro ampiamente nel libro. Per cui queste foto, come altre prove e altri indizi emersi dal mio lavoro, hanno subito una dispersione apposita. Anche il solo fatto di lasciarle lì come elementi che non hanno importanza per poi far dire “se non lo ha scoperto la magistratura allora non c’è niente da rivelare” è una precisa volontà di affossare la verità.
La tesi portata avanti dalla Sua inchiesta è quella che a uccidere Pier Paolo Pasolini non sia stato Pino Pelosi, o perlomeno non lui da solo e che non si tratterebbe di un omicidio a sfondo omofobo. Secondo la Sua ricostruzione si tratterebbe di una “trappola”, di un omicidio su commissione ma anche di un “massacro tribale”. Ci spieghi meglio.
Che Pelosi non fosse solo quella notte non lo dico io, lo hanno confermato anche le ultime indagini, appunto rilevando i profili di 5 DNA ignoti. Per me questo era già un fatto, ovviamente non dato per scontato anche quello, ma presto dimostrato nell’inchiesta. Il mio libro va oltre e avanza l’ipotesi, che ritengo incontestabile, perché suffragata da molti elementi anche di tipo giudiziario (non presi in considerazione dagli organi inquirenti e dalla magistratura tutta) che ad uccidere barbaramente Pier Paolo Pasolini sono state le convergenze di interessi messe in moto da più livelli mentre alcuni personaggi si accertavano che il poeta non potesse uscirne vivo. Livelli rappresentati dalla bassa e alta criminalità, dai fascisti locali e catanesi, da elementi dei servizi segreti che certo non ricoprivano un ruolo per scelta personale. E’ stato un massacro tribale, e questa definizione, che ormai ha per me il valore di un’analisi specifica (lo ha riconosciuto Il Venerdì di repubblica e la Francia in ben due articoli) ha un significato trivalente: tribale per la violenza e la precisione inaudite perpetrate sul corpo del letterato; tribale per la quantità delle persone coinvolte e accorse quella notte (almeno tredici ma anche di più); tribale per la forza e la ferocia con cui questo massacro ha continuato a perpetrarsi influenzando in gran parte la percezione della sua opera anche a volte dei più appassionati pasoliniani.
Quali potrebbero essere le motivazioni dietro questo omicidio? Nell’inchiesta si parla delle pellicole di “Salò” rubate, di un riscatto per riaverle. Sarebbe questa, secondo lei, la pista investigativa da seguire oppure c’è dell’altro?
Il furto delle pellicole di Salò non è il movente ma un espediente, che definisco di camuffaggio perché insieme a Salò sono state rubate altre pellicole, un trucco una trappola attraverso la quale hanno irretito Pasolini quella notte. Il movente di più complessa individuazione sicuramente si può ascrivere al contesto di quegli anni e alla forza delle parole trasformate in denunce che negli ultimi tempi Pasolini riversava nel linguaggio poetico, nel cinema, nella narrativa e nella saggistica. Alla fine del libro riporto dei documenti inediti che risalgono a poche settimane prima della morte e che riguardano un carteggio fra un ex editore di sinistra e di destra coinvolto nella strategia della tensione e lo scrittore. Documenti che spostano la possibile analisi del movente fino a poco tempo prima della morte.
Erano anni difficili, con forti scontri da varie fazioni politiche, tra comunisti e fascisti. L’omosessualità non era tollerata. Pasolini si trovava in un mondo che criticava ma al tempo stesso esprimeva con forza la sua libertà di espressione e di “scandalizzare”. E in molti pensano che “se la sia andata a cercare”.
Chi ha per primo pronunciate quelle parole (Giulio Andreotti), parole riferite anche a Giorgio Ambrosoli, poi nel 1993, quando viene raggiunto dal rinvio a giudizio per associazione esterna a cosa nostra, si scusa. Mi sembra un fatto anche questo importante dato che Pasolini chiedeva a gran voce un “processo alla DC”. Se il nostro compito come giornalisti è portare alla luce le evidenze che altri sopprimono, come ha cercato di trasferirci Pier Paolo Pasolini, mi sembra che questo non sia un elemento di poco conto. Ma Andreotti non è il Grande Vecchio che tutto ha mosso. Andreotti era parte di un sistema che tutto fa convergere e piegare ai propri interessi.
Giuseppe Mallozzi
L’AUTRICE
Simona Zecchi, giornalista, vive a Roma. Per la rivista I quaderni de L’Ora (n. 8, 2012) ha curato con la collega Martina Di Matteo un’inchiesta sulla morte di Pasolini, tema cui ha dedicato molti anni di ricerca. Ha collaborato con il manifesto e scrive sulla versione online del Fatto Quotidiano, il sito di informazione e approfondimento Gli Stati Generali e il quotidiano statunitense La Voce di New York, occupandosi di cronaca giudiziaria e attualità. È fra i fondatori del sito indipendente d’inchiesta Lettera35. “Pasolini massacro di un poeta” è il suo primo libro.