GAETA – Potrebbero essere riaperte le indagini su uno degli attacchi di pirateria più gravi degli ultimi decenni, il sequestro avvenuto alle cinque e mezzo del mattino dell’8 febbraio 2011 davanti le coste somale della petroliera italiana “Savina Caylyn”. Lo spera la famiglia di Antonio Verrecchia, marittimo di 68 anni di Gaeta, che di quell’equipaggio – 5 italiani e 17 indiani – era il direttore di macchina. Lo auspica all’indomani dell’arresto, da parte dei Ros dei Carabinieri su richiesta della Procura di Roma, di Mohamed Farah, somalo 24 anni, fermato presso il Centro di permanenza per i rimpatri ‘Pian del Lago’ di Caltanissetta, dove aveva chiesto lo status di rifugiato all’Italia, perché accusato di essere uno dei pirati che abbordarono al largo della Somalia e sequestrarono per 10 mesi la petroliera italiana ‘Savina Caylyn’ – rilasciata dopo il pagamento di un riscatto di 11milioni e mezzo di dollari – oltre che detenzione illecita di armi da guerra. I Carabinieri sono riusciti ad identificare Farah, giunto sulle cose siciliane a bordo di un barcone, confrontando le sue impronte digitali con quelle raccolte sulla nave di proprietà dell’armatore napoletano “Fratelli D’Amato”.
A chiedere di fare piena luce su cosa avvenne per 11 pericolosi mesi sulla “Savina Caylyn” era stata la famiglia di Verrecchia attraverso l’avvocato Vincenzo Macari. Nel 2015 la Procura di Roma, proprio attraverso il sostituto procuratore Francesco Scavo, lo stesso magistrato che ha disposto l’arresto di Farah, aveva sollecitato l’archiviazione dell’inchiesta contro ignoti per sequestro di persona a scopo terroristico ed atti di depredazione in danno di nave straniera. Reati pesantissimi per il codice penale italiano e quello della navigazione: il primo prevede fino a 30 anni di carcere, il secondo fino a 10. La famiglia Verrecchia nell’esposto inviato a Piazzale Clodio con l’ipotesi di reato di sequestro di persona a scopo di estorsione aveva posto interrogativi pesanti come macigni. Cosa avvenne davvero in quel tratto dell’oceano Indiano tra la Somalia e l’India? Fu pagato davvero un riscatto? Ci furono ritardi nella trattativa e, se si, perchè? Di certo il direttore di macchina Antonio Verrecchia non è più tornato a navigare e nemmeno potrebbe più farlo perchè destinataria di un’interdizione emanata dalla Capitaneria di porto. Ha ricevuto un aiuto economico per i primi 36 mesi per finire in uno stato di prostrazione dopo essere stato vittima di continue pressioni psicologiche e torture fisiche in balìa dei pirati somali.
Si tratta di elementi avvalorati da perizie che gli hanno riconosciuto un disturbo post traumatico da stress cronico mentre alcuna responsabilità è stata riconosciuta alla compagnia di navigazione, che pure secondo Verrecchia, “ben conosceva l’estrema pericolosità di quelle acque e non poteva lasciarle percorrere dal proprio personale, senza un minimo di cautela circa la sicurezza sui luoghi di lavoro”. Mohamed Farah, appena arrivato in Sicilia da qualche giorno con un barcone, aveva presentato richiesta di asilo al Centro accoglienza richiedenti asilo (Cara) di contrada “Pian del lago”, ma non di residenza nella struttura. Circostanza insolita che ha insospettito l’ufficio immigrazione, dando il via ai primi controlli. Gli esperti dei carabinieri hanno poi fornito la ragionevole certezza della corrispondenza delle impronte con quelle trovate sulla nave ed é scattato il fermo, al quale ha preso parte la Digos di Roma. A bordo della petroliera ‘Savina Caylyn’ dell’armatore napoletano “F.lli D’Amato Spa” – gemella della “Enrica Lexie” sulla quale nel 2012 furono fermati in India i marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre -, i pirati vi salirono, prendendo il controllo, da un barchino sparando all’impazzata con un lanciarazzi Rpg e con armi automatiche. Attraverso un mediatore, secondo quanto ricostruito dallo speciale ufficio anti-terrorismo della Procura di Roma , chiesero un forte riscatto, quantificato alla fine in 11 milioni e mezzo di dollari. Le notizie delle violenze inflitte all’equipaggio – pestaggi, minacce di esecuzione, torture – portarono al pagamento della somma, lanciata in tre tranche dal cielo in contanti all’interno di pacchi.
Secondo gli investigatori il riscatto sarebbe andato in tutto o in parte a finanziare l’organizzazione terroristica islamista somala Al Shabaab, con la quale i pirati erano in combutta, e alla quale minacciavano di consegnare gli ostaggi. Durante il sequestro oltre 60 banditi si sarebbero alternati a bordo della ‘Savina Caylyn’. Uno di loro era proprio Farah: non vi erano infatti membri dell’equipaggio africani, viene sottolineato nel provvedimento di fermo, quindi le impronte trovate dagli esperti del Ris carabinieri non possono che essere del giovane. Individuato sei anni dopo in Italia, Paese al quale aveva chiesto di essere accolto come rifugiato. Se la sua richiesta fosse stata respinta Farah sarebbe stato rimpatriato.
Saverio Forte
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