GAETA – Ostaggio di un gruppo di agguerriti e violenti pirati a bordo della petroliera italiana “Savina Caylyn” dall’8 febbraio al 21 dicembre 2011 nelle acque somale dell’Oceano indiano, Antonio Verrecchia, il 69enne ex direttore di macchina del mercantile di proprietà della società armatrice “Fratelli D’Amato” di Napoli, si costituirà parte civile nell’udienza preliminare che inizierà il 24 maggio prossimo davanti il Gup del Tribunale di Roma contro uno dei presunti componenti del commando. E’ questo l’orientamento esternato dalla famiglia del marittimo di Gaeta che, attraverso l’avvocato Vincenzo Macari, chiede da anni di ottenere verità e giustizia su quanto gravemente accaduto a bordo della motonave italiana abbordata da un gruppo di pirati somali la mattina dell’8 febbraio di sette anni fa. La famiglia Verrecchia spera che a ricostruire il reale svolgimento dei fatti possa essere l’unico indagato nei confronti del quale i sostituti procuratori della Repubblica di Roma, Rosario Aitala e Sergio Colaiocco, hanno chiesto che venga processato per sequestro di persona e lesioni gravissime compiute per finalità di terrorismo internazionale.
Si tratta di Mohamed Farah, il somalo di 26 anni, arrestato lo scorso 14 agosto dai Ros dei Carabinieri e dalla Digos della capitale su ordine del sostituto procuratore della Repubblica di Roma Francesco Scavo Lombardo presso il centro di permanenza per i rimpatri ‘Pian del Lago’ di Caltanissetta, dove aveva chiesto lo status di rifugiato all’Italia. Secondo la tesi accusatoria mossagli dalla Procura di piazzale Clodio il giovane somalo avrebbe svolto un strategico ruolo di primissimo piano nella gestione del sequestro, in particolare, di cinque marittimi italiani, Crescenzo Guardascione, Eugenio Bon, Giuseppe Lavandera Lubrano, Gianmaria Cesaro e, appunto, Antonio Verrecchia di Gaeta. Non solo minacce e violenze, fisiche e psicologiche, per dieci lunghi mesi ma anche l’ottenimento di un misterioso pagamento, da non meglio identificate autorità italiane, di un riscatto, pari a 11 milioni e mezzo di dollari, che sarebbe servito, in cambio della liberazione della nave e del suo equipaggio, a finanziare tre pericolose organizzazione terroristiche, di ispirazione islamica – Al-Shabaab (più nota all’opinione pubblica mondiale come Ash-Shabaab), Hizbul Shabnaab e Movimento di Resistenza Popolare nella Terra delle Due Migrazioni- operanti nel corno d’Africa.
Di questo irrisolto rebus aveva anticipato lo scorso febbraio lo stesso Verrecchia che, firmatario di una precisa memoria difensiva dell’avvocato Macari inviata al sostituto Procuratore Aitala, il magistrato che, dopo il “disco verde” del Gip Massimo Battistini, aveva riaperto le indagini su uno dei casi di pirateria più cruenti degli ultimi anni. Vittima a bordo della “Savina Caylin” – come detto – di indicibili violenze fisiche e psicologiche, Verrecchia ha subito un peggioramento del suo quadro clinico al punto che il dipartimento Salute Mentale dell’Asl di Latina gli ha diagnosticato un disturbo post-traumatico da stress cronico. L’ex marittimo di Gaeta intende offrire ora anche in un aula di Tribunale il suo personale contributo per fare piena luce su questo misteriosio attacco di pirateria dopo effettuato in Sicilia il riconoscimento personale di Farah, giunto in Italia a bordo di un classico “barchino”. E non è un caso che la famiglia Verrecchia stia pensando di coinvolgere, alla luce della riapertura delle indagini, la Corte europea dei diritti dell’uomo perché condanni lo stato italiano e, indirettamente, la società armatrice della “Savina Caylin”, a risarcire chi è stato davvero vittima di una formale bestiale di pirateria. Su quella petroliera maledetta Verrecchia si era imbarcato il 17 ottobre 201 a Singapore, con l’ordine impartito dalla compagnia di navigazione di raggiungere il Golfo Persico per caricare “blend crud oil” destinato ad Augusta, da lì poi diretti a Bashair e infine nuovamente a Singapore. Il marittimo di Gaeta in molte occasioni durante la sua prigionia subì violenza fisica, ad esempio, fu legato mani e piedi per più di un’ora accusato di nascondere il carburante richiesto dagli stessi pirati. E ancora violente percussioni con il manico di un’ascia, oltre ad essere stato violentemente minacciato dai sequestratori finanche del trancio delle dita e colpito dietro la schiena, nel mentre altri sparavano colpi di fucile in aria e uno dei pirati faceva gesto allo stesso Verrecchia di tagliargli la testa e di ucciderlo.
Ma non fu drammaticamente tutto. L’uomo venne anche portato nel locale macchine da un pirata, il quale lo fece spogliare e con una pinza esercitò una forte pressione sulle unghie delle mani e su quelle del piede destro procurando forti dolori. Successivamente venne fatto distendere a terra e con un cavo d’acciaio -. Si legge nella durissima memoria inviata alla Procura di Roma – venne colpito ripetutamente su tutto il corpo, oltre ad essere stato successivamente immerso più volte nell’acqua, fino a rasentare il concreto rischio di affogamento. Angherie, dunque, di ogni natura al punto che i pirati lo costrinsero anche a posizionarsi a gambe divaricate e braccia sollevate per circa un’ora nel piano coperta e nuovamente legato mani e piedi per lungo tempo. Questa atroce vicenda ha insite ancora troppe ombre che ha cercato di dilatare il 28 aprile 2015 quando il Gip del Tribunale di Roma Battistini, raccogliendo un mirato ricorso dell’avvocato Macari, ha permesso lo svolgimento di nuove indagini dopo che per la Procura “non c’era più nulla da chiarire”. A rincarare la dose, nei confronti dell’ex datore di lavoro di Verrecchia, la società armatrice “Fratelli D’Amato”, è proprio l’avvocato Macari, la quale – a suo giudizio – “non potrà essere ritenuta estranea al giudizio che occupa ed immune da responsabilità, quantomeno sotto il profilo previsto dal decreto legislativo 231/01 e dalle successive modifiche. Ben era nota quella parte del mondo per essere invasa da pirati capaci di ogni nefandezza, tanto che i Paesi occidentali solo in esito hanno disposto a tutela del naviglio commerciale ivi in transito anche la dislocazione delle rispettive navi militari, ma la compagnia armatrice, probabilmente per scelte di comodo connesse ai minori tempi di navigazione, ed a risparmio di carburante e di oneri di personale, ha deciso comunque di far navigare la “Salina Caylyn” in queste acque, sebbene infestate da pirati, capaci anche di azioni crudeli pur di depredare la nave del carico, o di monetizzare il carico, umano e di merci, sequestrato”. Da qui un intricante ed inquietante interrogativo è stato posto al sostituto procuratore Rosario Aitala: “ Quale è stata la cautela, in ragione degli indifferibili ed ineludibili presidi di sicurezza per il personale dipendente di bordo, posta in essere dalla società di navigazione D’Amato?
Dopo aver assicurato lo stipendio per i mesi di prigionia e le cure mediche di prima necessità per i primi 36 mesi successivi alla liberazione, in seguito la società armatrice ha abbandonato il povero Verrecchia al proprio destino e nulla è stato fatto neanche per il recupero delle sue condizioni psico-fisiche, lasciato, dunque, da solo in balìa del suo destino. Lo stesso, nel corso degli ultimi anni ha subito un progressivo e costante deterioramento della propria persona, al punto da subire un vero e proprio scadimento dell’”Io” e di rinnegare anche l’affetto dei propri cari (moglie e figli), senza che alcuno, compresi gli organi di previdenza (men che meno la società armatrice) avesse provveduto a ristorarlo delle gravissime angherie subite.”. Antonio Verrecchia e il suo legale avanzano altri dubbi che, secondo alcune indiscrezioni, sarebbero coperti da alcuni “omissis”. Insomma ci sarebbe lo zampino dei servizi segreti? Al momento la Procura di Roma sta ancora indagando ma relativamente alla liberazione “chi ha trattato con chi? Quale è stato l’oggetto della trattativa, durata oltre 10 mesi? Perché lo stesso ente o istituzione che ha sborsato la ingente somma oggetto dell’estorsione non ha provveduto anche e molto più legittimamente a risarcire anche l’equipaggio per quanto subito?”
Insomma si facci giustizia e chiarezza anche se sono rimaste inevase diverse lettere inviate alla Farnesina e alla compagnia di navigazione di Napoli. In più si aggiunge, per un ipotetico pronunciamento – come anticipato – della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, “una gravissima lacuna normativa derivante da una inesistente legislazione, al momento dei fatti, a tutela delle vittime di pirateria, considerata quale mero infortunio sul lavoro.” Dopo il danno, anche un’atroce beffa…
Saverio Forte