GAETA – Hanno fatto fatica a celare la loro rabbia i genitori di Daniele Barchi, l’uomo di 42 anni di Gaeta ucciso nella notte tra il 20 ed il 21 maggio 2018, a Viterbo, dopo aver ascoltato la requisitoria del sostituto procuratore Stefano D’Arma nel corso del giudizio abbreviato che si sta celebrando davanti il Gip del locale Tribunale Savina Poli nei confronti dell’unico imputato, il 32enne Stefano Pavani. Il rappresentante della pubblica accusa, al termine della sua requisitoria, ha chiesto 15 anni e 4 mesi di reclusione per Pavani, il quale, destinatario della dichiarazione della seminfernità di mente, può beneficiare, in caso di condanna, dello sconto un terzo della pena previsto dal rito.
Se per la sua difesa Pavani non voleva uccidere Barchi, il legale di parte civile, l’avvocato Lino Magliuzzi, ha dimostrato il contrario illustrando in aula il movente dell’omicidio: Barchi, che nei giorni precedenti il delitto sarebbe stato picchiato e oggetto di continue vessazioni, avrebbe soltanto chiesto al suo omicida di lasciare al più presto l’abitazione di sua proprietà in via Fontanella del Suffragio a Viterbo. Il 32enne aveva approfittato dell’indole buone e mite del giovane di Gaeta (era, per esempio, un attivo volontario presso la Caritas Diocesana del capuologo della Tuscia) per vivere nell’abitazione acquistata da papà Giuseppe e approfittare della situazione economica decisamente migliore della vittima. Barchi, originario di Novi Velia in provincia di Salerno, era praticamente cresciuto a Gaeta dove era stato adottato dai genitori. Fu vittima di una feroce aggressione, forse andata avanti per più giorni, in seguito alla quale, secondo l’accusa, sarebbe morto in maniera orribile, dopo avere tentato in tutti i modi di difendersi dal suo assassino.
Il Gip ha rinviato a mercoledì prossimo, il 10 luglio, la sentenza. Ma cosa successe praticamente quella notte? Barchi – si legge nella richiesta di rinvio a giudizio formalizzata dal Pm D’Arma – fu colpito da ripetute percosse in ogni parte del volto e del corpo tali da subire fratture costali multiple, una vasta emorragia intercostale, contusioni del parenchima polmonare, lesioni emorragiche, meningoencefaliche, toraciche, craniche e del collo al punto da patire la compressione della regione cerivale. La povera vittima venne ferita mortalmente con un coltello, con un forchettone da cucina e con una bottiglia di vetro. Ma perché tanta ferocia e violenza? La conclusione della Procura è stata chiara: futili motivi, banali vicissitudine quotidiane, insorte nel corso di un periodo di coabitazione tra la vittima ed il suo aguzzino. A dare il “la” alle indagini della Polizia fu la fidanzata di Pavani che, inizialmente indagata per non aver denunciato subito il delitto, disse testualmente: “Credo che lui abbia ammazzato un uomo, perché quell’uomo non respira più”. “Il mio assistito non voleva uccidere. Non sono stati i futili motivi il movente dell’aggressione, ma la sua totale infermità mentale – ha detto il legale difensore del 32enne Luca Paoletti arrivando a chiedere proscioglimento del suo assistito per totale vizio di mente – “Non si tratta di omicidio volontario aggravato come sostiene l’accusa. La morte è stata conseguenza della condotta di Pavani, sulla cui seminfermità mentale, se non totale, concordano tutti gli psichiatri che lo hanno visitato.”
Alla discussione erano presenti, come in tutte le precedenti udienze, anche i genitori della vittima che, costituendosi parte civile attraverso l’avvocato Lino Magliuzzi, hanno manifestato la loro legittima amarezza e rabbia per le conclusioni cui è giunta la difesa del 32enne. Il suo passato non è esente da ombre: nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2014, era stato già arrestato per una brutale aggressione a bottigliate nei confronti di un sessantenne di Corchiano, in provincia di Viterbo, avvenuta in un bar del centro storico. La bottiglia, per la violenza dei colpi inferti, finì in frantumi e la vittima riportò uno sfregio all’occhio destro, con una prognosi di trenta giorni, riportando danni permanenti alla vista. Processato per lesioni aggravate, Pavani fu condannato ma non finì in carcere, bensì fu disposto il ricovero in una Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), in base alla perizia psichiatrica disposta dal tribunale. Insomma Pavani era affetto da un disturbo della personalità che minava fortemente la sua capacità di intendere e di volere. Dal ricovero in una Rems però Pavani era fuggito e trovò ospitalità a casa di un ignaro e amabile Daniele Barchi di Gaeta al punto che la notte del delitto al momento del fermo sulla banca dati del Viminale l’omicida era un….“ricercato”.
Saverio Forte