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I Muse “atterrano” allo stadio Olimpico e incantano con uno show superlativo

ROMA – A distanza di sei anni dal concerto favoloso che di diritto fu nominato evento dell’anno 2013, i Muse tornano allo stadio Olimpico e infiammano il pubblico con uno spettacolo che lascia estasiati. Con due ore di rock “psichedelico” duro, intenso, appassionato, senza un solo minuto di pausa, il trio inglese composto da Matthew Bellamy, Chris Wholstenholme e Dominic Howard  – che piaccia o meno – si conferma la rock band live migliore di quest’epoca contemporanea.

A 50 anni esatti dallo sbarco sulla Luna, i Muse fanno il viaggio all’inverso e conducono sulla Terra alieni, cyborg e “something human per sorprendere e strabiliare.  Uno show creato con effetti speciali, pensato e realizzato omaggiando gli indimenticabili anni ’80 (e per me che sono figlia di quegli anni – come i Muse, del resto – è stato il non plus ultra).

Un grandioso impianto scenico, con un palco centrale sovrastato da un assetto audio notevole e un maxischermo gigantesco, una passerella di circa cento metri tutta illuminata che arriva al centro dello stadio e poi ancora luci coloratissime al neon, cannoni laser posizionati in tutto lo stadio, una strabiliante grafica 3D, luci led, coriandoli e fuochi d’artificio, ballerini vestiti con le tute illuminate simil Tron Legacy, acrobati fluttuanti in cielo vestiti da astronauti, replicanti in ogni dove, robot alti 3 metri che danzano ai lati del palco centrale, un gigantesco alieno robot alto almeno 10 metri (che ricorda e forse omaggia l’Eddie on stage degli Iron Maiden) che cerca di afferrare e mangiare la band, la quale nel frattempo sul palco si scatena dando il meglio di sé, con una carica e un’energia contagiose. Questi gli ingredienti di quello che Bellamy stesso ha definito “il nostro miglior concerto di sempre”.

Una piccola città viaggiante, quella dei Muse, che tra tir, tecnici, attrezzisti, ingegneri, maestranze varie e tutto lo staff organizzativo annovera centinaia di persone. Un concept concert che chiude le tre tappe italiane della band, due a Milano e questa di Roma, per il loro Simulation Theory World Tour 2019 che porterà i tre inglesi in tutto il mondo. Un mondo virtuale è invece quello creato da loro sulle atmosfere dei magnifici anni ’80, intonando con la chitarra persino un cult come Incontri ravvicinati del terzo tipo (non a caso, nell’attesa che il gruppo si esibisse, abbiamo ascoltato la colonna sonora di The stranger Things, 1994: Fuga da New York, e Jordan F, il produttore musicale di Sydney, che crea musica per sintetizzatori anni ‘80 in chiave moderna), in cui la grafica 3D fa da padrone. Un omaggio anche al cinema di quegli anni, con droidi a metà tra Robocop e Terminator, luci psichedeliche che riproducono la navicella spaziale dei Muse che intanto suonano ininterrottamente con una potenza che fa vibrare tutto lo stadio Olimpico. “Siamo in piena simulazione” sono le poche parole che pronuncia Matt, con un’entrata ad affetto, tramite una pedana mobile che lo innalza da sotto al palco direttamente sulla passerella tra il pubblico, immancabilmente vestito di pelle e con occhialoni fluo al led. Una simulazione di luci, colori e realtà virtuale che sempre di più prende il posto della vita vera, questo il nuovo messaggio ben poco velato che il frontman inglese esprime ancor meglio con la musica. Ma in questo mondo in cui sembra che l’umanità sia stata sconfitta e sostituita dai replicanti, i Muse continuano la loro Resistance e ci riescono alla grande.

Una scaletta fatta solo di pezzi potenti, nessuna ballata a parte Madness e Dig down, canzoni vigorose dal nuovo album, tra cui Propaganda che da vivo “spacca di brutto”, ma anche tanti classici amati come Uprising, Plag in Baby, Supermassive black hole, Hysteria, Bliss, Time is running out, Stockholm Syndrome,Take a bow, Starlight e Knights of Cydonia che è stata scelta per un finale col botto, in un tripudio di luci, laser, musica ed emozioni. Come sempre, Matt non sbaglia una sola nota, è perfetto sia con la voce, inconfondibile e potente, che con la chitarra che ama strapazzare, anche correndo da un palco all’altro, con quelle distorsioni che la fanno parlare prima e urlare dopo, ad un certo punto suonata persino con i denti. I Muse non si smentiscono e non tradiscono le aspettative che dopo l’Unsustainable Tour 2013 erano praticamente inarrivabili, e invece sono riusciti persino a superarsi.

Lo show è stato un crescendo continuo, pensato, studiato e realizzato per lasciare il pubblico di circa 60.000 spettatori a bocca aperta, come la sottoscritta (che di concerti ne ha visti tanti), ma sempre con contenuti potenti, importanti che, sebbene spesso lascino spazio ai complottismi, cantano un’umanità che va sempre preservata, come moderni cavalieri di Cydonia, perché “dobbiamo lottare per i nostri diritti, dobbiamo lottare per sopravvivere”. Uno spettacolo in cui la musica e le numerosissime citazione cinematografiche si fondono in un connubio perfetto.

Anche stavolta bagno di folla per Bellamy, che è sceso tra il pubblico a stringere mani, a prendersi tutto l’affetto dei suoi fan adoranti. E poi il finale con la bandiera italiana sulle spalle, come un moderno supereroe, mentre con la mano sul cuore ringrazia in italiano tutti noi che li amiamo da venti anni ormai e abbiamo aspettato tanto che tornassero in Italia. Un’attesa lunga sei anni, ma se i risultati sono questi, vale la pena aspettarne altri sei per vedere cosa si inventeranno di nuovo i Muse per il prossimo tour mondiale, perché una cosa è certa: oltre a essere una band eccellente, sanno davvero sorprendere e meravigliare.

Gisella Calabrese

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